Trovo su La Lettura del Corriere della Sera di oggi, un pezzo  di Guido Vitiello sul tema del “post”. Eccone un estratto: “I posteri, c’è da giurarci, si stupiranno di tutti gli sforzi profusi dai nostri contemporanei in quest’ambiziosissima impresa di autoperiodizzazione: il compito di collocarci nella storia, in fin dei conti, spetterebbe a loro. Ma forse i post-diluviani scampati al nubifragio dei post (post-industriale, post-coloniale, post-strutturalista, post-storico, post-ideologico, post-umano e via oltrepassando) coglieranno in questa ossessione per il «dopo» i segni di un’impotenza e di una sterilità del pensiero che si maschera, di volta in volta, da malinconia del superstite o da volontà di potenza, giacché quel piccolo prefisso consente, sia pure per un’auto-illusione linguistica, di sollevarsi al di sopra del proprio tempo e osservarne dall’alto il panorama di rovine, ciò che a nessun vivente è consentito.

Codesto solo oggi possiamo dirvi: ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più. E lo stato d’animo è ben diffuso al di fuori della cittadella dell’accademia. Ogni parola del dibattito pubblico ha il suo post che la accompagna come un’ombra: lo sappiamo bene nel Paese dei post-italiani (Berselli), dove ci si divide tra post-democristiani, post-comunisti e post-fascisti, e un post-comico vede nella Rete l’alba della post-democrazia. Ma forse non c’è neppure da esercitarsi troppo sul sentimento del tempo o sul senso della fine: la disseminazione dei post-qualcosa ha raggiunto un grado tale, ormai, da dover essere analizzata come mero vezzo linguistico. Tanti anni fa Tullio De Mauro scrisse un trattatello umoristico sulla «spiazzistica», ossia la Teoria del Parlare Difficile (Tpd). L’abuso del prefisso post si può considerare una variante della Regola V di De Mauro: «Secondo il teorema spiazzistico di Eraclito-Heidegger-Cacciari non c’è parola che non possa essere opportunamente ammiccata». La via maestra sono i trattini o le virgolette: se temete di apparire banali scrivendo gatto, provate con g-atto o con «gatto», equivarrà a dire che sì, pensate a un felino, ma non certo a un felino nel senso più ovvio, e insomma tra interlocutori intelligenti ci siamo capiti, o abbiamo fatto finta di capirci.”

E’ un tema su cui la riflessione dello Humanistic Management è tornata in diverse occasioni. Nel 2004, il contributo di Piero Trupia al Manifesto dello Humanistic Management si intitolava Cosa ci chiede il post, costruito appunto sull’idea che “il prefisso ‘post’ con il quale oggi esorcizziamo l’ignoto, non è una risposta ma la liquidazione del sostantivo cui è apposto. ‘Post-industriale’ equivale a impossibilità di continuare a concepire l’industria come la conosciamo e con essa, le sue codificazioni: in primo luogo, lo scientific management. Anzi, è l’esaurirsi di questo ad aver determinato la fine di quella”. E questo è l’incipit della Quinta Variazione: “Come tutti i “post”, anche il postmoderno ha dato alcune risposte, ma ha determinato soprattutto la nascita di nuove domande: lasciando così aperti spazi che una azione manageriale umanisticamente orientata può riempire. Dalla metà del ‘900, con l’apertura della fase del sospetto – Marx, Nietzsche, Freud – viviamo nell’era del ‘post’, un prefisso applicato a tutte le dottrine e a tutti i modelli in uso: post-metafisica, post-democrazia, post-welfare e chi più ne ha più ne metta. Ma il ‘post’ è spesso l’indice di uno smarrimento, la perdita di vista di una riva, la mancanza di un approdo sostitutivo e di carte nautiche o bussole di supporto. Dice Eugenio Montale, acuto interprete del ‘post’, “La bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”. Il montaliano Lucio Piccolo parla di un “Mobile universo di folate”. Postideologico, postylorismo, post… In sostanza, locuzioni asimmetriche rischiano di dirci che cos’è finito, ma non che cosa ci aspetta. Il post, nel frattempo, non aspettando le nostre definizioni per piombarci addosso, si configura come “il nuovo” che non siamo in grado di gestire”.

Ancora, nel 2008, in apertura de Le Aziende In-Visibili, scrivevo: “Il romanzo va ulteriormente contestualizzato nel dibattito attuale, letterario ma non solo. Per farlo possiamo prendere l’abbrivio da Paolo di Stefano, che, nell’arco di una settimana (16 e 22 gennaio 2008), ha pubblicato sul «Corriere della Sera» due recensioni del volume di Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, 2008). Il 17 era apparso su «La Stampa» un altro articolo di Marco Belpoliti. Altri contributi alla discussione sono venuti da Mario Baudino, Giorgio De Rienzo, Nico Orengo, mentre Massimo Maugeri ne ha fatto oggetto di un lungo post pubblicato sul suo blog Letterattitudine raccogliendo moltissimi commenti. Queste recensioni ruotano intorno all’idea che «nel ’67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi. Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento. Secondo Mazzarella, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di “belle lettere” tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria». Concetto rafforzato da Paolo di Stefano che così chiude il suo secondo articolo: «il management industriale sa che sono i filosofi, non gli scrittori, ad avere espresso negli ultimi decenni capacità immaginative straordinarie». 

Io credo che al fondo di questa, come di tante altre discussioni contemporanee, vi sia il testo di Francois Lyotard La condizione postmoderna (Feltrinelli, 1979). Qui si tematizza la fine delle “grandi narrazioni” che hanno orientato trasversalmente i saperi moderni. Oggi, dice Lyotard, siamo in una condizione frantumata e disseminativa dei saperi, che, come bene ha riassunto Franco Cambi, «hanno perduto Unità e Senso». La condizione postmoderna produce però sensibilità per le differenze e capacità di tollerare l’incommensurabile, facendo affidamento sulle “instabilità del sistema”. La legittimazione dei saperi si ottiene attraverso il dissenso, per “mosse” anche audaci, in un modo che si configura come un modello opposto al sistema stabile. Se non possediamo più metanarrazioni che ci orientino tra i saperi, di quei saperi dobbiamo – invece – recepire il dismorfismo, la dialettica, l’iter disseminativo. 
A questi fondamentali riferimenti se ne dovrebbero aggiungere molti altri, fra cui il concetto di complessità elaborato da Edgar Morin e da una folta schiera di epigoni, la visione della modernità liquida di Bauman e della modernità riflessiva di Beck, la teoria dei non luoghi di Augè e quella del genius loci di Trupia, il sensemaking descritto da Weick, l’effetto Medici scoperto da Johannson, l’ascesa della nuova classe creativa celebrata da Florida. E ancora le riflessioni di Levy sul virtuale e sull’intelligenza collettiva , di Virilio sull’arte dell’accecamento, di Kevin Kelly sulla necessità attuale di guidare le organizzazioni senza averne controllo, di Castells e Rullani sull’economia delle reti, di De Masi su fantasia e concretezza 
Insomma, un lungo elenco. Ciò che qui mi preme sottolineare, però, è che questo insieme di apporti, pur essendo entrato nei confronti di idee svoltosi su moltissimi tavoli diversi, specialistici e trasversali, negli ultimi trent’anni, di fatto non si è tradotto in pratiche narrative veramente nuove, almeno per quanto riguarda i due versanti che più mi interessano, quello artistico (letterario, in particolare) e quello manageriale. Certo, sempre più spesso studiamo saggi di sociologia o di management che traggono ampia ispirazione dai lavori di filosofi e romanzieri, e, viceversa, leggiamo romanzi o assistiamo a film o spettacoli teatralio rappresentazioni artistiche in genere, in cui si prendono a prestito linguaggi, temi e tecniche di scrittura dalle discipline più disparate, come dimostrano anche gli esempi citati in apertura riferiti a pubblicità e design. Ma si tratta nel migliore dei casi di contaminazioni, miscellanee più o meno riuscite, spesso mere giustapposizioni (il giudizio critico vale innanzitutto per i lavori che io stesso ho realizzato), generalmente intruppate nell’onnivoro concetto di postmodernità, che come ogni post è in realtà una trappola linguistica. Strictu sensu, postmoderno significa “ciò che viene dopo il moderno”: e cosa viene dopo il moderno? Tutto e il contrario di tutto. E’ come se, andando a cena da amici, vi pungesse la curiosità di chiedere: “Ottimo questo risotto, quale è la prossima portata?”, e la risposta non fosse “carne”, o “pesce”, o “salumi”, ma: “il postrisotto”. E con il più grande rispetto per l’affascinante percorso critico proposto dal sopra evocato Mazzarella bisogna riconoscere che: a) Anche, poniamo, Underworld di Don De Lillo ha più a che fare con I Buddenbrock e le grandi epopee borghesi del romanzo ottocentesco, che non con Virtua Tennis 3 o qualunque altro videogame; b) il modo più ovvio e radicale di riprodurre la poliedrica virtualità dei punti di vista è fare scrivere insieme un numero il più possibile elevato di persone, provenienti da campi disciplinari e da esperienze eterogenee, facendole interagire come se fossero i neuroni di uno stesso cervello, creando sinapsi creative al servizio di una opera finale collettiva, interconnessa e condivisa, dall’identità molteplice, certo, ma al tempo stesso unica e coerente: modalità operativa che da soli, per quanto geniali, anche autori come De Lillo, Kundera o lo stesso Calvino non possono mettere in atto e che invece rappresenta il fulcro de Le Aziende In-Visibili, così come, almeno in certa misura, della mostra organizzata dalla Triennale di Milano nel 2002-2003,  curata da Gianni Canova (già nel team creativo di Nulla due volte) ed intitolata  Le Città In/visibili,  cui hanno partecipato numerosi artisti di differente ispirazione – fotografia, pittura, architettura, eccetera – e che si proponeva di “rendere visibile il non visibile. Indagare quanto di reale c’è nell’immaginario con cui pensiamo alla città e quanto di immaginario c’è nel nostro modo di vivere lo spazio urbano”.
Sotto questo aspetto, l’auspicio espresso nel suo ruolo di critico della letteratura da Belardinelli, ovvero che si possa transitare dall’ormai usurato concetto di postmodernità ad una pratica narrativa radicalmente mutante, che sia in grado di dialogare con il patrimonio letterario del passato, prossimo e remoto, guardando tuttavia al futuro, può credo più generalmente tradursi nella tensione verso un modo di leggere, interpretare ed infine gestire la realtà che sappia superare vecchie tassonomie e modelli mentali. L’approccio collettivo e metadisciplinare che ha presieduto alla stesura de Le Aziende In-Visibili, in maniera ancor più programmaticamente marcata che in tutte le precedenti esperienze dello Humanistic Management, il cui bagaglio concettuale ormai può tranquillamente proporsi quale vero e proprio Humanistic Mindset per la (tentativa) comprensione, a trecentosessanta gradi, del mondo in cui viviamo, ha l’ambizione di affermarsi come una possibile modalità pratica di scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager, fra sociologi e attori, fra musicisti e designer, fra filosofi ed economisti, cercando di trovare un terreno comune di intesa (la piattaforma per la generazione di percorsi narrativi cui accennavo all’inizio) che sarà poi possibile declinare attraverso specifici linguaggi e svariate tecnologie di comunicazione ed espressione (si veda ad esempio Le Aziende In-Visibili: il Metabloghttp://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com – in cui i temi del romanzo vengono discussi e approfonditi con le modalità tipiche della Rete)”.
L‘esperienza attualmente in corso di Alice Postmoderna come piattaforma di social learning al tempo stesso multimediale, transmediale e crossmediale (nell’ambito della quale è stata anche ampiamente discussa la tesi neo-realista e anti-postmodernista di  Maurizio Ferraris, vedi ad esempio  I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b) costituisce la tappa (provvisoriamente) finale di questo percorso sul senso e nonsenso del “post” e del “postmoderno” in particolare.

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