Quinta Variazione. Come tutti i “post”, anche il postmoderno ha dato alcune risposte, ma ha determinato soprattutto la nascita di nuove domande: lasciando così aperti spazi che una azione manageriale umanisticamente orientata può riempire.

Dalla metà del ‘900, con l’apertura della fase del sospetto – Marx, Nietzsche, Freud – viviamo nell’era del ‘post’, un prefisso applicato a tutte le dottrine e a tutti i modelli in uso: post-metafisica, post-democrazia, post-welfare e chi più ne ha più ne metta. Ma il ‘post’ è spesso l’indice di uno smarrimento, la perdita di vista di una riva, la mancanza di un approdo sostitutivo e di carte nautiche o bussole di supporto. Dice Eugenio Montale, acuto interprete del ‘post’, “La bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”. Il montaliano Lucio Piccolo parla di un “Mobile universo di folate”. Postideologico, postylorismo, post… In sostanza, locuzioni asimmetriche rischiano di dirci che cos’è finito, ma non che cosa ci aspetta. Il post, nel frattempo, non aspettando le nostre definizioni per piombarci addosso, si configura come “il nuovo” che non siamo in grado di gestire. Soprattutto perché – dice Francesco Bacone – “il tempo, come lo spazio, ha i suoi deserti e le sue solitudini”: alcune trasformazioni sono più intense e veloci di altre, tanto da sfuggire a chi si trova a viverle. “La vita è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro”, commenterebbe Oscar Wilde. Vediamo dunque se riusciamo a fare un po’ di ordine.

La società industriale, centrata sulla produzione in grandi serie di beni materiali, ha coperto l’arco temporale che va dalla metà del Settecento alla metà del Novecento. A partire dalla seconda guerra mondiale si è verificata una nuova discontinuità epocale con la rapida affermazione di un modello socio-economico del tutto nuovo, che per comodità chiamiamo postindustriale, centrato sulla produzione di beni immateriali: informazioni, conoscenza, servizi, simboli.

Nel passaggio dal XX al XXI secolo questo modello ha rivelato più chiaramente alcune sue caratteristiche connesse a nuove forme di economia, di cultura, di convivenza centrate su creatività ed estetica. Fattori di mutamento come il progresso tecnologico (elettronica, informatica, nuove energie, nuovi materiali, laser, biotecnologie, farmacologia), lo sviluppo organizzativo, la globalizzazione, i mass media, la scolarizzazione di massa hanno determinato conseguenze socio-economiche rilevanti, fra cui: l’allungamento della vita media degli individui, la destrutturazione del tempo e dello spazio, l’emergere di nuovi valori, di nuovi soggetti sociali, di nuovi lussi.

Se dunque la postmodernità, da una parte, è il venir meno della forza ordinatrice della modernità, dall’altra si configura come un modello di riferimento alternativo che però, almeno in parte, non ha realizzato pienamente le sue promesse o, quantomeno, ha messo in luce delle contraddizioni. L’idea ad esempio che la creatività, l’estetica e l’etica possano diventare dominanti si è dimostrata inconciliabile con elementi quali il prevalere dell’economia sulla politica, della finanza sull’economia, della globalizzazione sull’identità: fino a determinare quelle che Domenico De Masi definisce vere e proprie “patologie sociali”, denunciate da fenomeni come ad esempio, negli Stati Uniti, la crescente mobilità verso mansioni sempre più dequalificate e il raddoppio della popolazione carceraria in poco più di vent’anni.[20] Ancora De Masi osserva: “mentre la globalizzazione ottiene un effetto omologante, d’altra parte le società e i loro immaginari collettivi si frammentano in sottogruppi. La massificazione gareggia con la soggettività.”

Il fallimento della new economy, sancito dall’ingloriosa fine della bolla speculativa che toccò il suo apice nel 2000, ha mostrato come la postmodernità possa liberare energie e immaginazione, espandere il virtuale, ma, andando in ordine sparso, non essere in grado di fornire una reale alternativa alla produzione moderna. Piuttosto possiamo definirla come una forma di consumo – dell’effimero, del superfluo, dell’indeterminato – che si riappropria della complessità non più inabilitata dai meccanismi di controllo della modernità. Ma questa riappropriazione sarà confinata nel mondo del consumo della ricchezza prodotta dagli automatismi e dai sistemi esperti, fino a quando non proporrà una forma nuova di produzione. Se tutto diventa contingente e contestuale, trascinato in un gorgo creativo senza limiti, saltano le compatibilità economiche del processo cognitivo. Gli investimenti non rendono e il retroterra su cui si regge la produzione del nuovo – inteso come effimero, emergente – scricchiola.

Tanto è vero che, se si può guardare con ottimismo alla capacità delle organizzazioni di sostenere l’avvento della Rete e dell’information technology, dunque sostenere l’impatto di quella “economia del sapere” che Lyotard già nel 1979 definiva come elemento caratterizzante la “condizione postmoderna”, è in buona misura grazie alla grande impresa della “old economy”, quando è riuscita ad essere “come la mitica fenice: smagrita e rinata dalle sue stesse ceneri, affronta la sfida del futuro utilizzando appieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, valorizzando il suo patrimonio più importante – le risorse umane – e il network relazionale”[21]; innestando quindi nel contesto dell’azienda tradizionale moderna alcuni principi del postmoderno, ma evitandone le enfasi, i velleitarismi, le false illusioni, la diffusa tendenza a declinarlo in termini di negazione, invece che di positività (rifiuto della gerarchia, perdita della teleologia, scomparsa dell’identità).

In questo senso, proprio tramite una azione manageriale umanisticamente orientata alcune delle opzioni che emergono dal travaglio del postmoderno potrebbero prendere vita. Fra tutte, la trasformazione del lavoro in “ozio creativo” – cioè sintesi fra lavoro, studio e gioco – in cui la creatività diviene centrale e consente alle imprese e alla società di progettare il proprio futuro coniugando fantasia e concretezza, ideazione individuale e collettiva, team creativi e clima organizzativo improntato all’entusiasmo.[22] 


[20] De Masi, 2000.

[21] Murtula, 2003.

[22] De Masi, 2003.

L’illustrazione Alla corte del Mirmecofago è di Stefano Faravelli

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