Ottava Variazione. L’Umanesimo è inquieta ricerca di senso o “carpe diem”? Un management umanistico deve trovare una strada che valorizzi entrambe queste ipotesi, attraverso un percorso fondato sull’autoespressione di quanto più autenticamente umano è presente negli individui e nell’impresa.

Le sfide competitive nei luoghi del lavoro, il confronto tra i sessi nella vita familiare e di coppia, le difficoltà nel confronto generazionale e nel rapporto genitori-figli, determinano in tutti, con sfumature e manifestazioni diverse, un bisogno diffuso di riconoscimento. L’individuo anela al riconoscimento del suo lavoro, delle sue sensazioni, della sua esistenza. Quando questo non avviene, le conseguenze possono essere pericolose per l’equilibrio mentale e vi è una messa in crisi dell’identità personale: “il riconoscimento non è una rivendicazione marginale… al contrario, appare decisiva nella dinamica della mobilitazione soggettiva dell’intelligenza e della personalità nel lavoro”[37].

Nel perseguire la ricerca di questo equilibrio, si possono seguire diverse strade “umanisticamente” orientate. Una è quella che non tematizza l’eliminazione della sofferenza nella vita privata e nell’esperienza di lavoro. Soffrire fa parte dell’umano e innesta il pensiero. Solo la sofferenza consente quella riflessione interna, quella capacità di depurare il riemergere alla coscienza dei sistemi difensivi più marcati, pervenendo così al pensiero. Si tratta di attribuire “un senso alla sofferenza” [38], attraverso il riconoscimento: nei casi in cui gli sforzi vengono riconosciuti, allora il tutto acquista un significato e si percepisce che i disagi hanno contribuito alla costruzione delle singole identità.

Dietro la scelta di questo percorso vi è l’idea che “l’Umanesimo divenne più vero quando seppe conquistarsi la possibilità di raccontare il suo invisibile: quando, oltre i cieli eterei delle finzioni iconiche, delle letterature edificanti, delle filosofie rassicuranti, proclamò tutta la scontentezza, tutta l’inquietudine, tutta l’erraticità intellettuale che per secoli, nella latenza e nella prudenza, lo avevano alimentato.”[39] E’ nelle figure del tragico, dell’insufficienza, dell’incompiutezza che si ritrova l’autenticità di una vocazione di pensiero che sempre si è interrogata più sul dispiacere di vivere (sul dover lasciare la vita, sulla impotenza ineluttabile, sulla ragione offesa, sul sentire le soglie del nulla…) che sul piacere e il godimento fini a se stessi.

La tragicità della condizione umana rappresenta l’oggetto e il motivo di una ricerca esaltante proprio perché destinata all’incompiutezza. E’ questione primaria e ultima di senso. Quando perciò dimentichiamo di occuparci diquesto senso, ecco che l’Umanesimo si ritrae e diventa espediente di sopravvivenza. Per una sopravvivenza certo più lieta e lenitiva, ma che ha perso il contatto con l’enigmaticità intrinseca al vivere.

In conclusione, secondo questa linea interpretativa, l’essenza dell’Umanesimo, più che nei torpori dilettevoli della pittura quattro-cinquecentesca, si trova nelle torsioni caravaggesche, nella musica barocca, nella spietata riedizione in disfacimento del proprio volto, in Rembrandt.

Ma vi sono alternative, per le quali è possibile ricollocare il patrimonio di pensiero umanistico nel quadro del nuovo contesto della contemporaneità, segnata, come mai in precedenza, dalla fusione fra materiale e immateriale. Esse prendono appunto le mosse dalla considerazione che i processi di riconoscimento con i bisogni non fisiologici, di secondo ordine, ad essi connessi e in essi contenuti, sono riferibili tutti alla dimensione immateriale. Abitiamo un mondo in cui si vogliono vivere esperienze materiali (visive, auditive, cinestetiche) per contattare immediatamente una dimensione emotiva, spirituale, trascendente. Voglio assaporare un caffè straordinario in un bar dove suonano musica jazz per poter vivere una esperienza che mi porta in contatto con un me altro, con la natura spirituale che sento dentro.

Non basta più l’identificazione nel gruppo, nel brand. Ciò che conta è fare esperienza momento per momento, il qui ed ora. I bisogni riguardano pertanto al contempo spiritualità e identità. La libertà di scegliere momento per momento come essere, come cambiare e cambiarsi, di assaporare l’attimo può rappresentare l’ideale di riferimento. In questo senso siamo oltre la scala dei bisogni di Maslow. Da questi nuovi bisogni scaturiscono le nuove motivazioni, esistenziali e professionali. Le persone cercano nel posto di lavoro un ambiente meraviglioso dove poter costruire qualcosa di nuovo, creativo, artistico, dove l’accoglienza, l’atmosfera, l’avventura siano garantite.

Se dovessimo allora indicare un singolo fattore motivazionale, cui riportare ad un fondamento comune le due alternative, apparentemente antitetiche, indicate – una che muove dall’Umanesimo più estetizzante ed inteso come territorio dell’armonia, degli equilibri, dell’uomo misura di tutte le cose, l’altra che scopre la versatilità umana, ambigua e tormentata, non nel perfetto corpo divaricato della famosa immagine leonardesca, quanto guardandone l’espressione corrucciata, tesa, insoddisfatta – esso potrebbe essere l’Autonomia, resa possibile da condizioni organizzative di Agio e dalla possibilità di realizzare la massima Auto-espressione, valore umanistico per eccellenza.

Operare lungo la traccia epistemologica dell’Autonomia implica che l’impresa accetti e faccia sua una visione che non prospetta una descrizione definitiva e onnicomprensiva degli attori organizzativi. In cui la gestione aziendale è interessata a seguire, sul piano dell’esperienza diretta, quali caratteristiche specifiche gli esseri umani possono sviluppare. E’ una gestione della vita vivente e non della vita statica. Gli esseri umani conservano la loro autonomia, mutando in coerenza con le proprie caratteristiche vitali: il contesto manageriale può avviare, favorire, ma non costituire in toto il loro cammino evolutivo. Resta così aperta per gli esseri umani una crescita della propria auto-organizzazione, senza una necessaria connessione all’idea di un programma predefinito dettato[40].

Dalla prospettiva dell’Autonomia si vede con chiarezza che le imprese devono andare a costituire uno spazio nel quale le singolarità diverse trovino ospitalità in un collettivo comunitario: “Agio è il nome proprio di questo spazio irrappresentabile; il termine agio indica infatti, secondo il suo etimo, lo spazio accanto (ad-jacensadjacentia), il luogo vuoto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente, in una costellazione semantica in cui la prossimità spaziale confina col compito opportuno (ad-agio, aver agio) e la comodità con la giusta relazione”[41]. Agio come luogo da raggiungere, dove i singoli possono esprimersi attraverso quel “libero uso del proprio” che, secondo un’espressione di Hölderlin, è il “compito più difficile”[42].

Se il riconoscimento è il bisogno individuale emergente nella società contemporanea, la libera Auto-espressione è la motivazione individuale fondamentale; un mix gestionale qualitativo, riconoscente, con capacità di contenimento, dei fattori che caratterizzano gli attuali contesti di lavoro, è la condizione, per così dire irrinunciabile, perché l’Autoespressione del sé da possibilità divenga emergenza quotidiana.


[37] Dejours 1998, trad. it. 2000, pag. 42.

[38] Dejours 1998.

[39] Vedi più avanti il saggio di Duccio Demetrio.

[40] Ceruti 1986, Ceruti, Lo Verso 1998, Varela 2000.

[41] Agamben 2001, pagg. 24-25.

[42] La conoscenza del passo di Hölderlin viene dalla lettura di Agamben, op. cit.

L’illustrazione Una domenica a Kashgar è di Stefano Faravelli

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