L’A.D. di Mnemonia, già direttore degli Oniria Labs, va alla ricerca del tempo perduto
“E dunque questo è stato il rapporto che ha fatto a Fordgates su Zoramem?”, mi chiese sorseggiando il suo Martini, mentre intorno a noi la festa aziendale volgeva al termine.
Al mio cenno di conferma, disse: “Temo che dovrà procedere rapidamente a una revisione.”
“Perché? Cosa sa lei di Zoramem?”
Buttò giù tutto d’un fiato quanto rimaneva nel bicchiere.
“Fu mio padre a parlarmi di Zoramem, molto prima che anch’io la vedessi – anche se ciò che vidi non fu quello che lui raccontava.”
Tacque. Aspettai. Guardò verso me, attraverso me, oltre me. I suoi occhi sembravano cercare qualcosa al di là del visibile.
“Ero appena un bambino”, riprese a dire. “Papà lavorava lì da parecchio. Ogni sera gli chiedevo notizie, e lui, seduto in poltrona, mi diceva che quella poltrona era Zoramem, e così anche il tavolo e tutta la casa, costruita e arredata solo grazie alla Zoramem. Era grazie alla Zoramem se potevamo mangiare e comprarci i vestiti. ‘Ricordalo bene’, diceva lui. ‘Tu non sai quanto importante sia, Zoramem, e che cosa facciamo, lì dentro’.
‘Certo che lo so’, dicevo io. ‘Polli, tu sei il padrone della fabbrica dei polli’.
Lui immancabilmente rideva. Polli! Bisognava essere proprio dei polli a credere una cosa del genere. Ben altro era il business di Zoramem…
‘Quale, allora?’, chiedevo a mio padre.
Lui diceva che le persone stavano perdendo i ricordi – te l’ho detto un milione di volte – perché, costrette a spostarsi di continuo per cercare lavoro e denaro da una parte all’altra del mondo, non avevano più Paesi d’infanzia, né terre d’origine, o almeno città in cui fossero vissute abbastanza.
‘I ricordi hanno bisogno di posti precisi’, diceva lui, ‘di dettagli concreti. E a Zoramem, questo facciamo: costruiamo luoghi in cui ambientare i ricordi’.”
“‘Non capisco’, dicevo io.
Papà mi accarezzava la testa.
‘Alla Zoramem, progettiamo e vendiamo posti, sulla base delle descrizioni sommarie che i clienti riescono a darci, posti completi di tutto, vie, piazze, palazzi, fontane, negozi’.
Apriva la ventiquattrore e mi mostrava una placca d’acciaio della misura di un’unghia, lucida e liscia, un minuscolo specchio.
Diceva che bastava farsi inserire la placca, una cosa da poco, compresa nel prezzo, per avere un luogo a cui legare i ricordi.
Dopo averla inserita, era possibile dire: in questo caffè, ho visto una donna bellissima; in questa cucina, ho visto morire mia madre; in quest’aula di scuola, ho pensato che, da grande, avrei forse scoperto qualcosa.
In quest’ospedale, ho visto gli occhi di mio figlio neonato.
E solo così, ricordando, potevi dire chi eri davvero.
‘Vendiamo tantissimo’, concludeva mio padre, ‘e facciamo qualcosa di utile’.
Era convinto che, quando fosse andato in pensione, io avrei preso il suo posto.
Anche lui s’era fatto inserire la placca: per questo ricordava l’incontro con mamma, ogni istante di quella prima giornata – al Saint Andrew, entrambi giovani medici, neurochirurgo lui, cardiologa lei, infiammati dal fuoco sacro di un lavoro vissuto come una missione –, ogni cosa che avevano fatto nel posto preciso in cui l’avevano fatta.
‘Anche tu ne avrai una – diceva – quando sarai grande abbastanza’, ma io gli rispondevo che non mi sarebbe servita, perché ricordavo benissimo la mamma e il poco tempo che aveva passato con me.
‘Sei così piccolo… hai ragione, eppure vedrai, quando sarai dall’altra parte del mondo, in una delle mille filiali di Zoramem – perché la Zoramem ti manderà lontano da qui, è così che funziona l’azienda – e cercherai, fra gli altri, il viso di tua madre, e non troverai che la nebbia, nient’altro’.”
“Indossai il vestito migliore e ci andai, ma, dove avrebbe dovuto esserci Zoramem, non c’era più niente. Soltanto lo scheletro di un vecchio edificio, colonne e solette, erbacce fra le crepe d’asfalto.
Un’insegna a cui mancavano lettere – Zora, formavano quelle rimaste.
Provai a chiedere in giro, ma nessuno seppe darmi notizie. Solo una donna mi disse d’averne sentito parlare, non ricordava né dove né quando, ma, aggiunse, ‘Sono in città di passaggio, non so proprio nient’altro’.
Credo che anch’io, molto presto, non saprò più cosa significhi, Zoramem. La luce variabile della sua memoria sta affievolendosi ogni giorno di più, ora che sono dall’altra parte del mondo, a cercare lavoro e denaro, come diceva qualcuno di cui non ricordo la faccia.”
Tratto da Le Aziende InVisibili, pp. 56-58.






